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Editoriale 43/2024
Sono solo fatti miei
Controllo la customer statisfaction di un corso di critica e programming a cui partecipo come ospite: è bassissima. Gongolo soddisfatto, come un bambino. Sono contento prima di tutto perché considero questa pratica di riscontro qualitativo da parte degli studenti una regressione radicale e irreversibile nella storia dell’umanità intera, un punto di non ritorno gravissimo, poi perché mi ricordo perfettamente quelle tre ore in cattedra: in un corso dedicato alla critica non c’era nessuno che la leggesse nemmeno per errore, e per quanto riguarda il programming, ecco, non c’era nessuno che avesse idea di come fosse costruito il programma di qualsivoglia festival citato a sorte. Da residuo di un’era che m’ostino a sperare non sia irrimediabilmente passata, è naturale, anche se infantile, che mi irriti quando sento dire cose come: «Ho fatto per tre anni critica cinematografica, poi, sapendo già tutto, sono passato a quella musicale». Wow. Potete immaginare come abbia reagito. Ma non è colpa di nessuno. Di certo non di questi studenti di critica e programming che han subito tutti gli effetti del mio fastidio: c’è una fascia di spettatori, anche e soprattutto cinefili, che non sono abituati a pensare i film. E non solo, naturalmente. Li giudicano, pronti a mettere le stellette su Letterboxd, a fare i commenti sui social, a dirsi i pro e contro, a «difendere con i denti» (spesso buttandola sulla poesia spiccia: ci sono pagine Instagram di successo che si occupano di questo) o deridere con termini scatologici (questo lo fan tutti), bocca o ano, zero/uno, pronti via. Ma approfondire con strumenti sensati no, quello no mai. Forse è sempre stato così, forse semplicemente non era così in primo piano. E tutto questo (che sta ammorbando anche molti critici felicemente rincoglioniti dalle nuove tecnologie) è un dato di fatto: tutti dicono che la critica non conta, ma ogni tanto, semplicemente, pare proprio che non esista del tutto. Me ne accorgo mentre formo la giuria giovani di un festival: non c’è nessuno che legga recensioni, le scrivono loro, velocemente, sui social, al limite ascoltano podcast o guardano su YouTube video di gente che fa caciara sui film. Ma quando li provoco, quando mi metto a fare il bastian contrario sulle loro prese di posizione, quando mi faccio polo dialettico rispetto ai loro pareri argomentando l’opposto, li vedo attentissimi, si illuminano e stanno al gioco, seguono e imparano ad andare oltre il proprio primo punto di vista. Sono contenti, e mi fanno contento. Non sono abituati semplicemente a queste cose da media che han costruito messaggi lontani, strutture in cui il pensiero critico non ci sta. E invece io penso che esista uno spazio per la critica, oggi e nel futuro. Bisogna solo trovare i modi e i luoghi per far sapere cosa è stata, cosa è e cosa può essere. Negli ultimi mesi sono uscite al cinema opere che non si fanno prendere ed esaurire dal discorso binario e dai format algoritmici del presente: Trap, Bestiari Erbari Lapidari, Joker: Folie à deux, Megalopolis, Parthenope. Sono opere che strabordano, che sfidano, che provocano: sono occasioni, anche e soprattutto, per mettere lo spettatore, la critica, il senso del cinema alla prova. Sono questi i film di cui oggi abbiamo bisogno. Le cose «necessarie», «educative», «da far vedere a scuola». Provate a ridurli a una serie di tag, a un nucleo di temi, all’agenda di questioni sociali dell’arte di oggi. Questi film non ci stanno. Rilanciano. Eccedono. E per noi è importante essere lì, con loro, in bilico, oltre il confine.